Arriva l’infermiere di comunità, regista della rete integrata territoriale

Via libera all’assunzione di oltre novemila infermieri di comunità. È quanto prevede il Patto per la Salute 2019/2021, inserito nel Decreto rilancio (legge 77/2020).

Dunque, a partire dal 2021, accanto ai medici di medicina generale, ai pediatri di libera scelta, agli specialisti ambulatoriali e ai farmacisti, sui territori arriverà “l’assistenza infermieristica di famiglia e comunità, per garantire la completa presa in carico integrata delle persone”.

A reclutare i nuovi professionisti saranno le aziende e gli Enti del Servizio Sanitario Nazionale. Le assunzioni previste saranno uno ogni 6250 abitanti, in un numero non superiore ad 8 unità ogni 50mila abitanti. Occorre fare dei distinguo: l’infermiere di comunità non è un professionista prestazionale e non deve essere confuso con l’infermiere preposto alle cure domiciliari che interviene subito dopo una prescrizione medica. L’infermiere di famiglia e di comunità è una figura nuova, con compiti e caratteristiche che vanno nella direzione di un “welfare di comunità”.

“La funzione che oggi tutti vedono come mancante e necessaria è quella di un regista che costruisca relazioni di prossimità tra istituzioni e comunità per risolvere i problemi di salute delle persone, soprattutto di quelle più vulnerabili – spiega  il professor Giuseppe Costa, professore di Igiene presso l’Università di Torino e coordinatore del Master in infermieristica di famiglia e di comunità della stessa Università -. Un regista che si occupa di un problema di salute lungo tutto l’arco della sua storia naturale: che sappia riconoscere per tempo i fattori di rischio, prevenirli e che sappia attivare la presa in carico dei peggioramenti di salute”. 

Una figura legata al territorio

Un’innovativa figura professionale, dunque, che risponde ai bisogni di salute della popolazione di uno specifico distretto territoriale di riferimento, non erogando solo assistenza, ma attivandola e stabilendo con le persone e le comunità rapporti affettivi, emotivi e legami solidaristici. 

“È una figura professionale che insieme ad altre, forma la rete integrata territoriale, prende in carico in modo autonomo la famiglia, la collettività e il singolo – spiega Barbara Mangiacavalli, Presidente Federazione Nazionale Ordini delle Professioni Infermieristiche (FNOPI) -. Ha un ruolo anche proattivo per promuovere salute, educazione sanitaria per la persona sana e la famiglia e la comunità e insegna l’adozione di corretti stili di vita e di comportamenti adeguati”. Necessario sempre, ma ancor di più in questo tempo di pandemia. 

In alcune regioni come il Friuli Venezia Giulia, dove l’infermiere di comunità è stato introdotto già nel 2004, ma anche la Toscana e altri territori, dove la sua attivazione ha già preso piede prima dell’introduzione nel Patto, sono già evidenti le risposte positive del territorio. In un triennio il Friuli ha ridotto i codici bianchi di circa il 20%, così come si sono ridotti i ricoveri e il tasso di ospedalizzazione del 10% rispetto a dove è presente la normale assistenza domiciliare integrata. 

L’infermiere di comunità corrisponde esattamente alla figura che di recente l’OCSE ha descritto in suo rapporto sulle cure territoriali, Realising the Potential of Primary Health Care, affermando che il futuro delle cure primarie dovrà essere basato su team multiprofessionali composti da medici, infermieri, farmacisti e operatori sanitari della comunità, dotati di tecnologia digitale e perfettamente integrati con servizi di assistenza specializzati. Questa struttura, sempre secondo l’OCSE, potrebbe evitare che in Italia 1 ricovero su 5 in Pronto soccorso sia inappropriato.

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