Handicap o disabilità: il ruolo dell’informazione

I giornali, le riviste e il web svolgono un ruolo di importanza insostituibile nella società moderna. Inutile sciorinare tutte le eventualità che negli ultimi anni hanno evidenziato questa funzione primaria: dalle fake news ai tweet del Presidente Trump che valgono più di una circolare. È evidente quindi che tutti i concetti che passano attraverso questi strumenti lasciano un segno indelebile nella società. E i concetti si trasmettono attraverso le parole.

L’ufficio stampa FIABA sta promuovendo presso gli ordini giornalistici una proposta che faccia da argine al sensazionalismo, al pietismo o al buonismo che prendono sempre più piede fra le pagine dei quotidiani italiani. E un piccolo glossario che deriva dalla nuova classificazione internazionale delle disabilità, promossa dall’Organizzazione Mondiale della Sanità già qualche anno fa, ma non ancora completamente acquisita dalla narrazione giornalistica italiana.

Persona disabile e altre espressioni

La menomazione è il termine utilizzato dalla classificazione delle disabilità negli anni ’80. Il modello ICIDH del 1980 è stato rimpiazzato dall’International Classification of Functioning, Disability and Health (ICF, Classificazione Internazionale del Funzionamento, Disabilità e Salute) del 1999. L’obiettivo di tale modello ICF dell’OMS era quello di costituire uno schema di classificazione internazionale per descrivere, in maniera coerente, il funzionamento della persona.

La sequenza menomazione – disabilità – handicap viene sostituita dalla sequenza di base funzioni e strutture corporee – attività personale – partecipazione sociale, che costituisce una connotazione neutra e che permette di descrivere qualsiasi tipo di situazione, non solo quella di disabilità/handicap. L’ICF, cioè, non classifica più le malattie, ma le componenti della salute, intese come punti di forza per la qualità della vita della persona. Un passaggio che non è recepito ad oggi dai quotidiani italiani e dalla deontologia giornalistica.

Si è discusso nel corso dei decenni su quale fosse il termine più appropriato per indicare la persona con disabilità, sono stati creati e diffusi neologismi, ma non si è mai raggiunta un’omogeneità né si è mai trovato un termine che raggruppasse diverse sensibilità, storie, convinzioni. Rifacendosi alla Convenzione internazionale sui diritti delle persone con disabilità, la proposta Carta deontologica delle PRM prescrive alcuni termini, piuttosto che proporne di nuovi. FIABA e gli aderenti convergono nell’acronimo PRM (person with reduced mobility), già adottato a livello internazionale negli aeroporti, ma non pretendono di omologare in un unico acronimo le esperienze di molte persone.

È invece necessario ricordare cosa scrive la Convenzione: handicap viene completamente cassato (non appare neppure una sola volta in tutto il testo), mentre si sostiene che l’aggettivo “disabile” non deve mai diventare un sostantivo. Si può parlare di persona disabile, ma non di disabile. Si rischia di creare un termine collettivo che va ad indicare una minoranza, insomma una discriminazione. La “disability style guide” del National Center on Disability and Journalism di New York alla parola “disabled/disability”, scrive: “Quando ci si accinge a descrivere un individuo, non fare riferimento alla sua disabilità, a meno che non sia strettamente pertinente con la storia che stai raccontando. Se davvero è pertinente, è meglio usare un termine che si riferisce alla sua condizione di individuo, prima, e poi alla sua disabilità. Per esempio: “Lo scrittore, che ha una disabilità” è da preferirsi a “Il disabile, che fa lo scrittore”.   

Da evitare soprattutto “menomazione/menomato” (per i motivi di cui sopra); ma anche “diversamente abile/diversabile”: hanno assunto un carattere di politically correct e sembrano avulsi dalla condizione reale della persona con disabilità, come ci insegna l’Accademia della Crusca nella risposta ad un quesito sulle parole per parlare di disabilità.

Verso una società inclusiva ed accessibile

Un ulteriore appunto va fatto ad una perifrasi semanticamente agghiacciante, tanto cara allo stile giornalistico di questi anni: “costretto su una sedia a rotelle”.

Al primo capoverso di un articolo di Repubblica.it del 28 novembre 2016, intitolato Capri, il disabile e il belvedere negato: “Ho il diritto di ammirare il mare”, si legge: “Non possono negarmi il diritto di vedere il mare. Può solo intuirlo, Christian. E non lo accetta. Perché quegli scalini che lo separano da uno dei panorami più belli dell’isola di Capri sono un limite crudele e invalicabile per chi, come lui, è costretto su una sedia a rotelle.”

O sul CorrieredellaSera.it, in un articolo dal titolo Chi vuole giocare con me? del 25 novembre 2016: “Nicola ha 10 anni, frequenta la quinta elementare a Palermo e il suo videoappello potrebbe sembrare uno dei tanti che girano su Facebook. Il bimbo, però, sin dalla nascita è costretto a spostarsi su una sedia a rotelle perché è affetto da spina bifida.” Facendo una semplice ricerca online si possono trovare esempi quasi quotidiani dell’uso di questa perifrasi.

La sedia a rotelle è un facilitatore, uno strumento di liberazione, non può diventare lo stesso simbolo della disabilità: l’ONU stessa ha fatto un passo indietro epurando dalla simbolistica sulla disabilità l’immagine della persona in carrozzina e sostituendola con un’immagine stilizzata dell’uomo vitruviano. Il messaggio è chiaro: l’uomo come misura di tutte le cose. E proprio così deve essere se si vuole costruire una società inclusiva ed accessibile.  

La proposta dell’ufficio stampa FIABA – contattabile scrivendo a Nicola Maria Stacchietti all’indirizzo ufficiostampa@fiaba.org – non fa altro che acquisire ciò che l’ONU afferma da tempo, e che ancora non ha trovato applicazione nella narrazione giornalistica italiana.  

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